L’11 luglio 2018 veniva definitivamente risolta la questione sul diritto dell’ex coniuge economicamente più debole, a percepire un assegno divorzile, a seguito del dibattito scaturito dalla pronuncia della I sez. Civile della Corte di Cassazione, n. 11504/2017 (cd. Sentenza Grilli), con la quale pareva esserci stato un cambiamento di orientamento circa il criterio da valutare per l’elargizione dell’assegno periodico di divorzio: se dagli anni ’90 al 2016, il criterio cui fare riferimento era sempre stato quello del “medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”, con la sentenza del 2017, il criterio di riferimento era quello dell'”autosufficienza economica del coniuge”, sulla stregua del principio di auto responsabilità, mutuato dal sistema civilistico tedesco.
Tuttavia, questo nuovo parametro, aveva dato vita a molte critiche, dal momento che non si capisse quali fossero i parametri per valutare “l’indipendenza economica del coniuge richiedente”.
Vi erano Tribunali che ancoravano tale criterio al concetto di “esistenza libera e dignitosa” (si veda Corte d’Appello di Brescia), altri che lo ancoravano alla soglia minima reddituale per avere diritto al patrocinio a spese dello Stato (in tal senso, Tribunale di Milano), altri Tribunali ancora (come la Corte d’Appello di Genova e quella di Napoli), che suggerivano a gran voce la necessità di non abbandonare il precedente criterio del tenore di vita, ma di valutare piuttosto caso per caso, e riattribuire all’assegno divorzile, una natura perequativo – compensativa. Questa divergenza di visioni, portava alla pronuncia delle sezioni unite della Corte di Cassazione del luglio 2018. La Cassazione, adottava un atteggiamento equilibrato, che seguiva la posizione mediana suggerita dalle Corti di Appello genovese e napoletana.
Dopo aver ripercorso la storia giurisprudenziale dell’assegno divorzile, disciplinato all’art.5 della L. n. 898/1970, la Corte di Cassazione riconosceva che accanto alla indiscussa natura assistenziale dell’assegno divorzile, occorreva attribuirgli egual natura perequativa, da ciò conseguendo che i singoli giudici dovessero valutare con attenzione il singolo caso concreto. Di conseguenza, l’assegno divorzile sarebbe stato corrisposto in presenza di una notevole differenza reddituale tra gli ex coniugi, tutte le volte in cui venisse accertato che la parte economicamente più debole “non avesse mezzi adeguati, o fosse nella impossibilità oggettiva di procurarseli”.
Per stabilire se sussistessero o meno i mezzi adeguati, o si fosse nella impossibilità oggettiva di procurarseli, i criteri cui far riferimento, erano tutti quelli previsti dalla prima parte del co. VI dell’art. 5 della legge n. 898/1970, ossia: il tribunale, avrebbe dovuto tenere conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutare tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, nonchè l’età delle parti.
Più recentemente, con la sentenza, numero 35385 del 18/12/2023, la Corte di Cassazione è tornata sulla modalità di quantificazione dell’assegno divorzile, ribadendo le regole espresse dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 18287 del 2018. Difatti, come su detto, questa importante pronuncia stabiliva che, per decidere se concedere l’assegno di divorzio e determinare il suo ammontare, il giudice, sulla base dall’articolo 5 comma 6 della legge sul divorzio (numero 898 del 1970), avrebbe dovuto valutare: le condizioni dei coniugi, le ragioni del divorzio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla vita familiare ed alla formazione del patrimonio condiviso e il reddito di entrambi. Tutti questi elementi devono essere considerati anche in relazione alla durata del matrimonio. È quindi fondamentale valutare se la disparità economica tra gli ex coniugi dipende dalle scelte fatte durante il matrimonio, come per esempio i sacrifici professionali in favore della famiglia.
Questo perché la funzione dell’assegno divorzile non è soltanto assistenziale, ma anche compensativa e perequativa in applicazione del principio costituzionale di solidarietà.
La Corte di Cassazione nel dicembre 2023, dopo aver ribadito l’attuale orientamento, affronta una cruciale questione: l’articolo 5 comma 6 della legge sul divorzio stabilisce che, nella quantificazione dell’assegno, bisogna considerare la durata del matrimonio, ma è giusto tenere conto anche del periodo di convivenza stabile e continuativa vissuto dalla coppia prima di ufficializzare l’unione con il matrimonio?
La convivenza prematrimoniale è sempre più diffusa nella nostra società e si accompagna a un crescente riconoscimento, sia nei dati statistici che nella percezione delle persone. Difatti, la convivenza viene considerata come formazione familiare con una dignità tendenzialmente equivalente a quella del matrimonio. In sintesi, il dubbio che ha provocato la pronuncia della Corte di Cassazione, è il seguente: risulta oggi coerente, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, mantenere una distinzione fra la durata del matrimonio e quella della convivenza prematrimoniale alla quale è seguito il matrimonio?
Nella sentenza dello scorso dicembre la Corte stabilisce che, nei casi in cui il matrimonio si ricolleghi, in ragione di un progetto di vita comune, a una convivenza prematrimoniale della coppia stabile e continua, nel determinare la quantificazione dell’assegno divorzile va considerato anche il periodo di convivenza prematrimoniale.
Questo perché il periodo di convivenza prematrimoniale è importante per esaminare le scelte condivise dalla coppia che possono aver influenzato la vita coniugale: in particolare, si devono valutare eventuali sacrifici o rinunce, specialmente per quanto riguarda la carriera lavorativa del coniuge economicamente più vulnerabile, che potrebbe avere difficoltà a garantirsi un adeguato sostentamento dopo il divorzio.